Lina Badiale. Una storia da leggere

Dagli scritti della nipote…
Se penso a “Storie di una vita di lavoro e impegno sociale”, mi sorge
spontaneo ed obbligato il riferimento a zia Lina: Benilde Sartori Badiale

– personaggio conosciutissimo a Cavarzere e in tutti gli ambienti politici e sindacali della provincia di Venezia.

Per l’impegno, appunto, politico e sociale che ha contraddistinto tutta la sua vita, sento di dedicarle una celebre massima di Simone de Beauvoir: “donna non si nasce, lo si diventa”.

Non so quanto di vero sia incluso in questa affermazione, ma sono con-
vinta che, per il forte carattere e lo spirito di giustizia e di fratellanza che
l’hanno caratterizzata, Lina possa considerarsi compresa in tutto il suo
significato.

Ho dunque raccolto le sue memorie e i suoi ricordi per raccontare un po’ della sua storia; perché Lina fa parte della storia di Cavarzere.
Per esprimere in maniera più compiuta il senso ed il valore del suo impegno, è necessario però descrivere, seppure brevemente ed in forma generalizzata, il contesto sociale ed economico del territorio che fu teatro della sua esistenza e della sua attività concreta.

Cavarzere, geograficamente, è collocata all’estremo sud della provincia di Venezia, al confine con la provincia di Rovigo, stesa sulle due rive dell’Adige. La sua storia è documentata già dall’epoca etrusca e poi romana. Le genti venete trovarono rifugio nelle terre emerse intono a Cavarzere durante le invasioni barbariche.

Fu dominata dagli Spagnoli, dagli Austriaci e dai Francesi e, per lunghi
periodi, dai Veneziani (Antico Dogado), dei quali si riconoscono ancora
oggi alcuni segni, quali le denominazioni di vie e località (Ca’ Venier,
Ca’ Beadin, Ca’ Mocenigo, Ca’ Labia, Ca’ Briani, ecc.).
Nei primi decenni del ‘900 esistevano nel territorio cavarzerano, esteso
per ben oltre 124 chilometri quadrati, grosse proprietà agrarie (i Previlio,

i Franzin, i Converso, i Tajin) che superavano i cinquanta ettari di estensione (alcune di queste anche i 500). Per la lavorazione dei campi venivano impiegati mediamente anche più di cinquemila braccianti, tutti organizzati dalla Camera del Lavoro.

Per tutto il periodo che va dai primi anni del ‘900 e fino al 1950, Cavarzere, assieme al suo territorio esclusivamente agricolo e a quello dei comuni viciniori, è stata caratterizzata da una serie interminabile di lotte che si svilupparono via via per garantire non solo la sopravvivenza della povera gente, ma, soprattutto, per la conquista di migliori condizioni di vita e di diritti che, una volta ottenuti, venivano successivamente estesi anche ad altre realtà nazionali.

Massicce manifestazioni di disoccupati si susseguirono incessantemente non solo a Cavarzere, ma anche in tutta la provincia.

La coltivazione della terra era l’unico e vero grande problema, al punto da stabilire definitivamente il rapporto conflittuale tra la figura del bracciante e il proprietario, l’agrario.

La piattaforma contrattuale di quel tempo verteva attorno al principio
delle otto ore lavorative e dell’aumento del salario. Contestualmente si
volevano vincolare i padroni al criterio dell’impiego di braccianti in nu-
mero direttamente proporzionale alle dimensioni delle aziende.
Anche nel cavarzerano stava sempre più prendendo piede, in quel pe-
riodo, l’ideologia fascista, che si affermava attraverso i suoi interpreti
principali: gli agrari, che del territorio possedevano la parte maggiore.
Nel 1920, nel cavarzerano, si verificarono i primi episodi di violenza fa-
scista. In quell’anno, nel novembre, squadre di fascisti provenienti dalle
zone di Padova misero a soqquadro la Camera del Lavoro, devastando e
distruggendo documenti e materiali.

Superato il periodo fascista e la seconda guerra mondiale, il conflitto sulla condizione agraria non si placa; riprendono e proseguono le lotte, delle quali le più significative e importanti:

– sciopero dei compartecipanti per ottenere l’aumento della quota di riparto; l’accordo ottenuto con la trattativa sindacale venne poi esteso a tutta la provincia;

– ripetuti scioperi dei braccianti per il rinnovo del contratto nazionale. La lotta viene allargata a tutta la provincia e gli agrari scendono a patti soltanto quando il bestiame nelle stalle comincia a morire;

– novembre 1948: braccianti e coloni scioperano per il ritiro da parte degli

agrari delle disdette e dei licenziamenti. Lo sciopero dura 10 settimane e si ottiene il ritiro di quasi tutte le disdette;

– maggio/giugno 1949: sciopero nazionale dei braccianti i quali, durante
lo sciopero, raccolgono ugualmente il grano della meanda. (Questa
forma di lotta viene considerata illegale dalla Confederazione degli

agricoltori, che rompe le trattative; riprenderanno con l’intervento del Governo):

– giugno/luglio 1949: sciopero dei braccianti nella provincia veneziana
per ottenere l’accordo con gli agrari. La lotta, che si protrae per 40
giorni, vede una forte e massiccia partecipazione dei braccianti cavar-

zerani.

Nel 1950 ha inizio una nuova forma di sciopero: lo sciopero a rovescio. In quaranta giorni di lotta vengono svolti diversi lavori: migliorie e sistemazioni nelle varie aziende, lavori di bonifica e di manutenzione. I padroni però sono intervenuti distruggendo i lavori eseguiti per non dover riconoscere diritti di sorta ai lavoranti.

Si registrarono diversi interventi dei reparti specializzati della Polizia, la
famigerata “Celere”. Molti furono gli arresti, anche fra le donne.
Nel mese di novembre del ’51 la grande alluvione, determinata dalla rotta
dell’argine sinistro del Po, all’altezza di Occhiobello, portò distruzione
e lutti in un territorio già abbondantemente segnato e impoverito.
Tutto il territorio sulla parte destra dell’Adige viene sommerso dall’ac-
qua.

Tale disastroso e devastante evento si rivela come l’elemento scatenante
della gravissima crisi che stava investendo il paese, una crisi che vantava
radici assai lontane, indissolubilmente legata ad un binomio economico

– sociale che aveva sempre caratterizzato la sua esistenza e che vedeva
da una parte i latifondi, e quindi gli interessi dei grossi proprietari, dal-
l’altra parte le esigenze di migliaia di persone, gente di campagna, che
costituiva la più grossa fetta degli abitanti del Comune, giunti alla soglia
delle 30.000 unità.

Il 1952 è un anno nero.

A primavera, due terzi dei compartecipanti sono ancora senza terra; in
aggiunta a ciò, si determina anche la chiusura del linificio.
Cresce, quindi, l’emigrazione verso la Lombardia e il Piemonte.
Il numero degli emigranti subisce una considerevole impennata nel 54,
quando uno sciopero memorabile segna il momento culminante della

protesta della gente dei campi che si dà ormai per vinta e abbandona in massa la terra.

Successivamente Cavarzere viene riconosciuta come zona depressa e
quindi zona di applicazione della Legge Stralcio di Riforma agraria.

Lina Sartori, nata nel giugno del 1921, è stata protagonista degli avveni-
menti storico – politico – sociali che hanno caratterizzato tutto quel pe-
riodo.

Protagonista giovanile nelle lotte bracciantili, ha iniziato a militare nel Partito Comunista Italiano e nella Cgil nel primo dopoguerra.
Negli anni 50 ha seguito, per conto della Cgil, la categoria dei lavoratori e delle lavoratrici del settore tessile a Venezia.

È stata una delle organizzatrici dell’Unione Donne Italiane (UDI), sempre nella provincia di Venezia.

Ma andiamo per gradi a raccontare un po’ della vita di Lina, a cominciare dalla sua infanzia.

La famiglia del nonno paterno, si può dire, viveva discretamente bene,
in quanto svolgeva diverse attività : il noleggio di un landò, la gestione
di alcune giostre, una osteria ben avviata e possedeva un palazzo a tre
piani dalle parti di piazzetta Manin, a Cavarzere, all’incrocio con via Na-
zario Sauro. Alla morte del nonno i figli si divisero il patrimonio, ma non
seppero farlo fruttare e in poco tempo dilapidarono tutte le sostanze, ri-
trovandosi, pure loro, poveri.

Il padre di Lina, noto per le sue idee socialiste e antifasciste, subiva continui soprusi: il carcere, le bastonate, l’olio di ricino. Non era in grado pertanto di mantenere la moglie e i due figli, in quanto non aveva un impiego, un lavoro stabile. In queste condizioni, tutta la famiglia pesava sulle spalle di una zia.

Finita la prima guerra mondiale, l’Italia era un paese sconvolto, disorientato, senza fiducia e senza prospettive di rinascita.

Ebbe così terreno fertile la nascita del fascismo.

Anche a Cavarzere, grosso paese agricolo di circa ventimila abitanti, la
vita è dura, pesante. Vi lavoravano i braccianti, i bovari, i meandini, senza
un salario fisso, ma con contratti aziendali o con contratti di divisione
del prodotto.

Non avevano assistenza medica, né alcun altro tipo di garanzia.

Vivevano in catapecchie, con il soffitto di canna o di grisole e il pavi

mento era costituito da semplice terra battuta.

Le famiglie erano molto numerose, in media le donne mettevano al mondo 7-8 figli.

Era invalso l’uso di imporre ai nati nomi “cronologici”: Primo, Secondo… Quinto… Settimo… Ottavo… Decimo.

Stavano tutti ammucchiati in una sola camera da letto, disponevano in genere di una cucina con il focolare dove bruciavano la paglia, i canari e, quando andava bene, le fascine prodotte dal taglio dei rami degli alberi, mentre nel centro del paese, attorno alla chiesa e al municipio, si concentravano i negozi e gli uffici dei professionisti.

Quindi, ben divisi: da una parte i poveri che lavoravano la terra, dall’altra i ricchi, che erano il dottore, il podestà, il farmacista, il maestro e il prete. Al venerdì, giorno di mercato, i contadini si riversavano in paese, quasi tutti a piedi. Non potevano permettersi neanche una bicicletta.
Era questa una delle pochissime occasioni che avevano per lasciare la campagna e incontrare persone.

Si barattava: non c’ erano soldi.

E in questa realtà di povertà, i contadini, i boari, trattati al pari delle be-
stie, diventavano sempre più poveri e i castaldi – o gli agrari – sempre
più ricchi.

I numerosi giovani, figli di contadini, erano per la maggior parte disoccupati e generalmente non andavano a scuola o, se ci andavano, dovevano abbandonarla molto presto, per andare a lavorare e dare così una mano in famiglia. Solo i figli dei professionisti, i figli dei ricchi possidenti potevano frequentare la scuola.

Il paese era in queste misere condizioni quando lo spettro del fascismo cominciò a manifestarsi, ma la popolazione non fu in grado prontamente di capire il grave pericolo. Lo capì quando i fascisti iniziarono a raggrupparsi in bande, quando presero a bastonare, a picchiare chi si dimostrava ostile al regime, a saccheggiare e compiere ruberie.

I fascisti usavano abilmente una semplice precisa tattica, atta a dividere la popolazione: chi si iscriveva al fascio era inserito nel lavoro, chi non si iscriveva era privato di ogni possibilità.

La famiglia di Lina non aderì, non cedette a questo ricatto.

Addirittura questa scelta coraggiosa le fece perdere il palazzo e l’osteria,
perché al padre non venivano affidati lavori e non poteva contare su en-
trate economiche sufficienti a mantenere la famiglia. Questa scelta costò

anni di sofferenze, di fame, di miseria e di paura. Una paura che accompagnò Lina per tutta la sua vita.

Fu quando un plotone di fascisti fece irruzione a casa loro, con i fucili puntati. Cercavano il padre il quale, con un suo fidato amico, fece appena in tempo a trovare rifugio nel camino.

La disperazione della mamma e il terrore di due bambini, forse, fecero
desistere il gruppo, capitanato da un uomo che chiamavano podestà.
Dopo questo fatto, per non aggravare ulteriormente la situazione e met-
tere in pericolo anche la famiglia che li ospitava, si trasferirono in un’altra
abitazione (una cucina e una camera dove dormire), il cui cortile confi-
nava con il cortile del palazzo dei De Mia, la famiglia del veterinario.
Cinque erano le figlie, di cui una, Emilia, era la più fascista ed era la sua
maestra. Spietata, pestava la bacchetta sulle nocche delle dita delle mani
e, il più delle volte, mandava Lina a casa sua a sbrigare varie faccende
domestiche.

Un giorno la maestra Emilia la costrinse a spogliarsi delle proprie vesti
ed ad indossare, davanti a tutta la classe, la divisa della “Piccola Italiana”.
Si sentì offesa ed umiliata tanto che, all’uscita da scuola, buttò quel-
l’abito, simbolo del fascismo, in Adige. Il giorno dopo, furono botte,
schiaffi. La maestra sfogò la sua rabbia sulla bambina e così Lina non
volle andare a scuola.

In poco tempo, quasi tutti i Cavarzerani avevano accettato di iscriversi al fascismo, vinti dalla fame e dalla necessità di dover provvedere al sostentamento delle loro famiglie.

Ricorda, zia Lina, che da bambina era costretta a sottostare alla prepotenza del fratello, convinto che la primogenitura e l’essere di sesso maschile gli desse questo potere.

Ma ricorda anche l’affetto di nonna Vincenza, bidella presso le scuole
elementari maschili, delle zie Antonietta e Maria che, assieme alle donne
del “selese”, in corte dei conti Beggiolini, lavoravano al telaio.
Il selese era un’aia di mattoni, molto ampia, ricoperta di bitume. Veniva
usata per stendere ed essiccare il grano, i fagioli, il granoturco, ecc. So-
litamente attorno al selese si trovavano le abitazioni, e la stessa aia era il
luogo di ritrovo, oltre che di lavoro degli occupanti stessi, specialmente
delle donne.

Ricamavano pizzi meravigliosi, che venivano destinati ai ricchi negozi di Firenze.

Lavoravano, per poche lire, otto-dieci ore al giorno, intonando melodie e canti, unico divertimento, certo motivo di allegria.

Finalmente, agli inizi degli anni’30, il padre cominciò a lavorare conti-
nuativamente, grazie all’interessamento di Luigi Sacchetto, un impresa-
rio edile e questo fu un grande sollievo per tutta la famiglia.
Conclusa la scuola (frequentò fino alla terza elementare – allora non c’era
l’obbligo scolastico e l’analfabetismo, soprattutto nelle campagne , era
pressoché totale), ritenne opportuno di andare ad imparare un mestiere.
Si ritrovò quindi “piccinina” dalla signora Reguber, una delle sarte più
brave del paese, che aveva bisogno di una ragazza che facesse il sopraf-
filo.

Per due anni fece sempre e solo quello, sulle vestaglie di cotone o di fustagno, mai sulla seta, ritenuta troppo delicata.

Ma il lavoro più impegnativo e faticoso era quello di consegnare al do-
micilio delle clienti i vestiti finiti. Per farlo, doveva camminare da mat-
tina a sera.

Non percepiva salario, contava sulla generosità delle clienti, ma in compenso imparava a fare alla perfezione il sopraffilo.

Proseguì il lavoro di apprendista sarta da Maria Capello, a cui si legò af-
fettuosamente perché si sentiva trattata come una di casa e, ancora
adesso, incontrando le figlie, sente che quell’affetto non è scomparso.
Giocava con loro, Anna e Vanda, con una bambola, ma più spesso a lippa
(antico e semplice gioco popolare consistente in due pezzi di legno di
misura diversa, ricavati generalmente dal manico di una vecchia scopa).
Vanda, considerata un maschiaccio, la lippa la sapeva costruire e la sa-
peva limare, e molto bene, tanto che il gioco era sempre in mano sua.
Pochi erano i divertimenti.

“Durante la bella stagione” – racconta Lina – “ci si ritrovava lungo l’Adige, sulla strada ghiaiata. Si stava ore a chiacchierare, ma soprattutto occupavamo il tempo a cantare, seduti su una panchina. Ne risultavano dei cori stupendi, tanto che la gente usciva in strada o si affacciava alla finestra per ascoltare.

Poi c’era la passeggiata da piazzetta Manin a tutta via Roma. Il marciapiede era nostro, di noi della piazza. Erano dunque spintoni, alla domenica dopo la messa, tra noi che abitavamo in piazza e quelli che venivano dalla campagna, considerati con altezzosità di ceto inferiore”.

Ricorda inoltre due personaggi che Fellini avrebbe senz’altro inserito nei
suoi film: Boetto, detto Marea, e Suman. Con la fisarmonica, dopo il la-
voro o nei giorni di festa, seduti su una seggiola sgangherata davanti al-
l’uscio della loro casa, suonavano valzer e mazurche. Quale occasione
per i giovani stare assieme, scambiarsi pensieri e opinioni e ballare, a
piedi nudi, sulla terra!

Concetta, la mamma, era molto religiosa, devota a S. Antonio da Padova. Andava a Messa tutte le domeniche, al mattino molto presto. Raramente conduceva con sé i due bambini, per non costringerli ad alzarsi dal letto alle cinque del mattino.

La ricorda sempre vestita di nero, con un fazzolettone, anche quello nero, a coprirla tutta.

Crescendo, andò dalle suore, come usavano fare quasi tutte le ragazze del centro del paese e nonostante avesse instaurato una bella amicizia con la Luigina Munari e con la Bruna Vascellari (di estrazione sociale superiore alla sua), anche in questo ambiente conosce la discriminazione tra fascisti ed antifascisti, fra ricchi e poveri.

La mamma, perché fosse ben accetta dalle suore, che dovevano inse-
gnarle l’arte del cucito e del ricamo, le aveva comprato il tamburello per
il sostegno della tela da ricamare e una careghetta, ma non servirono. Di
lei non si occupavano. Veniva lasciata in disparte; neanche una suora in-
terveniva per farla partecipe di qualche attività manuale.
Così abbandonò ancora una volta, come abbandonò la scuola, arrabbiata
ed umiliata. Mai una suora si preoccupò del motivo per cui lasciò. Mai
le chiesero il motivo che l’aveva spinta a rinunciare, neanche per carità
cristiana, neanche per un semplice gesto di misericordia.
Quanta pena nel percepire che a lei era riservato un trattamento, un’ac-
coglienza ben diversi di quelli riservati alle figlie di buona famiglia! Mai
un sorriso, mai una tenerezza da quelle monache. Capì che la differenza
sociale ed economica formava delle persone scontente e amareggiate.
Per le donne, se non impegnate nei lavori della campagna, l’unica pos-
sibilità di guadagno era andare a servizio presso famiglie facoltose.
Sua zia Maria, per quattro mesi all’anno, era impegnata come cuoca
presso i conti Salvadego. Qualche volta le permetteva di accompagnarla
e allora, sognante, girava per i saloni elegantemente arredati, meravigliata
davanti a quadri ed arazzi, attratta da quelle opere pur non comprenden-
done il valore.

In quel periodo vide per la prima volta, sulla tavola imbandita della famiglia Salvadego, banane e panettone.

Anche Concetta lavorava. Un lavoro molto faticoso: lavava la biancheria presso alcune famiglie. Le ginocchia a terra e le mani dentro l’acqua. Con un piccolo mastello e la tavola da bucato (tavogliero) passava giornate intere a lavare lenzuola e tovaglie, con le mani screpolate per il freddo, per la soda e per la cenere.

Il detersivo si otteneva facendo bollire la cenere – che doveva essere di
legno bianco e dolce – e setacciando con il tamiso, al fine di ottenere una
polvere fina da mettere nell’acqua bollente in cui immergere i panni da
lavare.

Nell’età dell’adolescenza, poco dopo la metà degli anni ’30, cominciano a formarsi delle amicizie vere e durature: la Cesarina, la Edvige Biondi, la Delia Nisio, la Tina Negrini, la Erminia Pavanato e poi Alfredo Sarega, Leone Fai, Giulietto detto Pamogio.

Erano ragazzi ancora senza un lavoro, senza una lira, privi di ogni speranza. La cosa strana, impensabile ai giorni nostri, era la loro amicizia, un sentimento nobile, della quale andavano fieri.

C’erano delle amicizie un po’ più intime e quando due ragazzi si piacevano, tutto il gruppo faceva festa. Non si parlava d’amore, tanto meno di sesso: parole completamente estranee alla loro formazione culturale. La Delio sposò un professore di Milano, la Edvige un ferrarese, la Erminia un agricoltore della padovana e la Cesarina, la più sfortunata, si innamorò di Giulietto detto Pamogio che la tenne in ballo per due anni, poi emigrò in Svizzera e non si seppe di lui più nulla.

Questo era il gruppo dei ragazzi di famiglie operaie ed era senza dubbio il più affiatato.

Poi c’era il gruppo dei figli dei ricchi, dei professionisti. Loro andavano a scuola, frequentavano il liceo e poi l’Università.

Difficile, impossibile per un figlio di un bracciante o di un operaio spe-
rare di laurearsi. Era un lusso che le povere famiglie non si potevano per-
mettere.

Avevano un atteggiamento superbo, a volte prepotente, ostentavano la loro ricchezza ritenendola il loro biglietto da visita.

Non c’era amicizia fra queste due ben distinte compagnie, ma piuttosto un rapporto dettato dalla differente classe sociale.

Un altro elemento di divisione dei giovani era rappresentato dalle ragazze che frequentavano le suore. Certamente imparavano a ricamare, a rammendare, ma la loro formazione politico-culturale a chi era demandata? Lei, la Lina, non riuscì mai ad inserirsi in quel contesto.
Nel frattempo il fascismo si rafforzava.

Economicamente, per la famiglia Sartori, non c’erano grossi problemi e le cose non andavano male. Con la guerra d’Abissinia, il papà di Lina aveva potuto comprare una radio, così avevano notizie in diretta sulle imprese degli Italiani.

La propaganda del regime fascista era tremenda: quel popolo, gli Abis-
sini, secondo quel tipo di informazione, doveva essere civilizzato e dun-
que bisognava mandare in quella nazione soldati armati.
E ogni volta che da Cavarzere partivano dei soldati per andare a com-
battere il Negus, in piazza del Municipio c’erano festose parate, con la
partecipazione di scolaresche, con i fascisti con la fanfara che cantavano
“Faccetta nera”. E il prete, sempre presente a queste manifestazioni, a
dare la sua benedizione!

A Cavarzere seguivano le imprese dei soldati in Africa alla radio o al ci-
nematografo. Ce n’era uno solo, nel palazzo ora chiamato Palazzo Da-
nielato, sede della biblioteca e del teatro comunali. In quel cinema ha
visto i primi film muti, l’operetta. Le discussioni che seguivano alla vi-
sione duravano giorni e giorni, fino alla successiva occasione.
C’era un cinema anche a Boscochiaro, una frazione distante circa cinque
kilometri dal centro. Andavano a piedi, in gruppi numerosi, a seconda
del numero dei partecipanti si aveva diritto ad uno sconto e tanto più nu-
trito era il gruppo, tanto più grande era lo sconto praticato.
Ma la miseria continua a dilagare e i giovani non trovavano lavoro.
Chi vuole lavorare è costretto ad iscriversi al fascio e allora, facilmente,
viene assunto presso lo zuccherificio o a lavorare le cipolle al villaggio
Mussolini.

Lo zuccherificio, comunemente chiamato la Distilleria, si costituisce come
Società Anonima il 10 febbraio 1907. Essa ha come oggetto ‘la lavora-
zione di tutte le materie atte a produrre alcoli, nonché il trattamento dei
sottoprodotti, il commercio relativo a tali lavorazioni e l’esercizio di ogni
altra industria e commercio affini’. Tale fabbrica rappresentava dunque
una grossa risposta sul piano occupazionale e una risoluzione a molti dei
problemi esistenti. Inizialmente vi si produceva soprattutto alcool, rica-
vandolo dalla lavorazione della barbabietola e del melasso.

Fin dai primi anni vi fu lavoro per tanta gente all’interno dello stabilimento (lavaggio bietole, trinciatura, presse lavorazione polpe, fermentazione, distillazione…) e all’esterno, ad esempio per le numerose squadre di facchini impegnate nelle operazioni di trasporto, di carico e scarico dai carrelli ferroviari e dai barconi che attraccavano sulle rive del Gorzone e dell’Adige. Poi le squadre di tecnici, carpentieri, fabbri, meccanici.

La distilleria dava impulso, inoltre, a numerose altre attività (si pensi al
trasporto di combustibili, delle materie da lavorare, dei prodotti finiti).
Nel 1924 vi fu la creazione dello zuccherificio che, oltre ad arricchire i
proprietari, dava lavoro anche a un gran numero di compartecipanti im-
pegnati nelle operazioni di semina, zappatura e raccolta della barbabie-
tola.

Negli anni ’50 la fabbrica perse la sua competitività e iniziò la smobilita-
zione”.

(Da “C’era una volta la Distilleria” di Duilio Avezzù e Carlo Baldi).

La radio, i cinegiornali Luce, la stampa mostrano intanto piazza Venezia, a Roma, piena di gente festante e contenta: l’importante è dare la sensazione della potenza e della grandezza dell’impero!

In questo clima, a Cavarzere, si cerca comunque di tirare avanti.

Per qualche anno Lina va a servizio e, nei giorni di festa, con gli amici
di sempre, va a Padova, a Venezia, non in treno, ma in bicicletta.
Anche a Tresigallo, vanno, in bicicletta, perché là abitava il moroso della
Edvige.

Durante una di queste gite a Tresigallo, conosce un giovanotto.

Un bel ragazzo, alto, slanciato! Lui parlava bene e quel modo di parlare le piaceva.

Cominciarono a scriversi sempre più spesso finché, un bel giorno, Giuseppe – così si chiamava – capitò a casa sua per chiedere a suo padre il permesso di sposarla.

Si fidanza quindi, forse per non sentirsi inferiore, ma ancora oggi si domanda il perché di quel fidanzamento. Mah! Forse perché parlava con quel simpatico accento ferrarese!

Lui andava a trovarla due – tre volte al mese, non di più. In bicicletta la strada era lunga e pericolosa, con la guerra in atto.

Era un orgoglio allora – per le ragazze – avere il fidanzato! Lei lo aveva

– un foresto – poi! Che parlava ferrarese!

A quel tempo le ragazze, ingenuamente, non erano preparate ad affron-
tare le difficoltà di un rapporto d’amore e di sesso era perfino proibito
parlare.

Ogni tanto capitava che nella corte dove abitava ci fosse la nascita di un bambino, ma nessuno parlava, nessuno spiegava ai piccoli come quel prodigio potesse accadere. E lei, come è prevedibile, rimase incinta. Giorgio nasce nell’estate del ’45.

Decisero allora, lei e Giuseppe, di maritarsi.

Lei partì per Tresigallo, luogo scelto sia per la cerimonia, sia per la futura vita insieme. La famiglia dei suoceri la accolse a braccia aperte, ma Giuseppe no. Per alcuni giorni non si fece vedere, finché tornò e disse: “Cara Lina, io ti devo sposare, perché c’è un bambino, ma non ti amo. Sono innamorato di un’altra”.

Poiché dalla vita aveva imparato a camminare con le proprie gambe,
anche questa volta non si fece prendere dal panico (una ragazza madre,
a quei tempi…) provata e ferita, prese il bambino e, a piedi, fece ritorno
dai suoi che la ricevettero arrabbiati per l’umiliazione subita. Ma dopo
un po’ tutti furono contenti di tenere quel bambino fra le braccia.
Proprio così inizia la parte centrale di “E noi siam lavoratore” lo spetta-
colo prodotto nel 2007 dalla CGIL in occasione del centenario della sua
fondazione, con l’immagine di Lina che ritorna, portando in braccio con
fierezza il suo bambino. La rappresentazione è tratta da una ricerca sto-
rica condotta da Maria Teresa Sega di r-Esistenze, associazione per la
memoria e la storia delle donne in Veneto che, nella parte centrale, vuole
ricordare la storia delle battaglie sindacali per la conquista dei diritti fon-
damentali e della libertà negli anni del dopoguerra nel Cavarzerano. Giu-
seppina Casarin interpreta Lina con superba maestria.
Finalmente la guerra finisce. Sono rimaste solo macerie e distruzione,
ma nel contempo si vede anche il nascere di una nuova battaglia: la Re-
sistenza.

A Cavarzere la Resistenza, contrariamente a quello che succede nel resto dell’Italia, non registra attività partigiana generalizzata e diffusa, se non alcuni eventi o episodi. Fra questi, uno dei più importanti è quello riferito alla cattura del dott. Flavio Busonera, membro della Resistenza, in contatto con Concetto Marchesi.

In un pomeriggio del luglio del 1944, un gruppo di fascisti entra nella
sua casa e, a forza, lo trascina violentemente in una macchina che fugge
a tutta velocità. Viene incarcerato dapprima a Rovigo, a Padova poi,
dove, per rappresaglia, verrà impiccato in via S. Lucia il 17 agosto dello
stesso anno.

Due dei tre figli di Busonera quel pomeriggio sono presenti e assistono
sgomenti e terrorizzati al dramma che si sta compiendo davanti ai loro
occhi.

Il 28 luglio del ’44 avviene il primo bombardamento aereo, avente come
obiettivo il ponte ferroviario sull’Adige. Vengono colpiti l’ospedale, la
casa di riposo, la distilleria, edifici pubblici e moltissime abitazioni pri-
vate. Il 4 agosto il ponte ferroviario viene distrutto, ma le incursioni aeree
non si fermano. Fino al 31 dicembre se ne contano 25 con 102 morti.
Con l’intento di distruggere una colonna semovente tedesca è stato raso
al suolo un intero paese. Abbattuti i ponti per impedire che i tedeschi at-
traversassero l’Adige, abbattuti il municipio, il campanile, le chiese, le
case. Cavarzere si era meritata l’appellativo di “Cassino del nord”.

I bombardamenti hanno lasciato solo macerie, ma si respira un’aria diversa, si ha voglia finalmente di ritornare alla vita.

Lina comincia a frequentare la locale sezione del Partito Comunista, dove il fratello l’aveva iscritta d’imperio, non immaginando l’impegno e il senso del dovere che Lina vi avrebbe messi. Capisce che deve liberarsi dalle imposizioni dei maschi e che deve necessariamente uscire da quella condizione di subalternità.

Sente l’esigenza di partecipare, di esprimere le proprie idee e, per farlo, l’unico modo è quello di confrontarsi con gli altri e frequentare i luoghi deputati alle discussioni e agli incontri.

Partecipa alle lotte che riprendono dopo gli anni del regime fascista. Anni che, tra il 46 e il 49, periodo caratterizzato da lotte bracciantili e da scioperi, la vedono protagonista attenta ed impegnata nel pretendere condizioni di lavoro e di vita accettabili per tutti i deboli.

Dopo tutto il lavoro svolto dai lavoratori della terra, il padrone tratteneva
per sé fino al 75% del guadagno. I braccianti, i poveri stanchi ed affamati
(il cibo era costituito il più delle volte da un fico secco fritto tagliato in
due metà in modo da immaginare di avere il piatto abbondante, polenta
e renga) mettono in atto uno dei più grandi scioperi che il mondo brac-
ciantile avesse mai visto. Vogliono migliori condizioni di vita e di lavoro,
ma vengono intralciati dai crumiri che ne ritardano l’esito.

Lina mal sopporta le ingiustizie e convince alcune compagne (la Alta-
bella “Sassa” la Gemma “Biscotti”, la Maria Zanni e la Liliana Bonde-
san) a portare un aiuto ai manifestanti. In pochi giorni il numero delle
donne si allarga, fino a raggiungere la cifra di quasi duemila. Quaranta

giorni dura lo sciopero e loro, dalla mattina alla sera, in bicicletta, a girare per le campagne, a portare viveri agli uomini impegnati nella lotta, inseguite e attaccate dai reparti della temuta “Celere”.

Lo sciopero si estende a tutta la provincia. Molti capi di bestiame, senza cibo, muoiono nelle stalle. Finalmente viene raggiunto l’accordo con gli agrari anche a livello nazionale.

Allo sciopero dell’estate del ’49 per la firma dell’accordo, si stima abbiano preso parte oltre ventimila braccianti, con una massiccia partecipazione di cavarzerani.

Lina viene applaudita, acclamata e la invitano a parlare alla gente. Lei non si sottrae e va dove la sua presenza viene richiesta.
Sente che la sua condizione non è soddisfacente: ha bisogno di studiare e imparare. Contro il parere dei suoi, accetta di andare a Faggetto Lario, sul lago di Como, alla scuola di partito.

Qui incontra Nilde Jotti, Marisa Rodano, Anita Pasquali (direttrice del Centro studi), Teresa Noce (della quale, sindacalista storica, partigiana, internata in campo di concentramento, scrittrice, proprio alcune settimane fa a Cavarzere è stata commemorata la figura, alla presenza delle Autorità locali, di alcuni membri della segreteria provinciale di Venezia della Cgil e di Maria Teresa Sega, che ha dialogato con Lina, ancora molto vivace e attiva, combattiva come sempre).

Si sente un pesce fuor d’acqua, lei che non ha dimestichezza con i libri, che non ha studiato, a sentir parlare di Marx, di capitalismo, di riscatto sociale, di diritti, di borghesia. Per lei la borghesia era rappresentata dai militari in abiti civili.

Si sentiva inadeguata di fronte a quelle donne colte e istruite. Ma Anita Pasquali provvedeva puntualmente a consolarla e la aiutava ad avere più fiducia in se stessa.

Al rientro a Cavarzere, proprio a lei, che veniva da una realtà contadina,
viene affidata la direzione del Sindacato dei tessili a Venezia.
Deve seguire diverse aziende, tra cui il Cotonificio veneziano a Santa
Marta (ora sede dello IUAV), due filature a Marghera e il Feltrificio di
San Donà di Piave.

Fu proprio in questo stabilimento che fece le sue prime tessere. Le operaie erano un centinaio e le iscrisse tutte.

Erano tempi duri, molto duri, allora per i sindacalisti! Se volevi mangiare,
dovevi darti da fare. Lina spesso ha patito la fame. Capitava a volte di
non riuscire a mettere insieme il pranzo con la cena. Per calmare i morsi

della fame, si ritrovava a camminare avanti e indietro per le calli veneziane, fermandosi davanti ai negozi di alimentari o davanti alle finestre dei ristoranti, guardando all’interno gli avventori che pasteggiavano, anticipando una spassosa scena del film “Victor Victoria”, sperando di incontrare qualche compagno che le potesse offrire un panino.
Frequentando la sezione del PCI conosce Dante Badiale, quarto di una numerosissima famiglia di 13 figli (3 deceduti in tenera età). Sarà l’uomo con cui dividerà la sua vita. Si sposano nel 1953.

Anche Dante, pur non avendo avuto un’istruzione scolastica di livello superiore, dimostra una mente aperta e illuminata.

Diventa sindaco di Cavarzere nel ’54 e, durante la sua lunga attività di
amministratore, ha dato prova della sua lungimiranza e bontà: basti pen-
sare ai trasporti e testi scolastici gratuiti per gli studenti, alle scuole ele-
mentari edificate verso la fine degli anni 50 costruite con criteri moderni,
palazzine ad un piano, circondate da giardino. In quello delle scuole del
centro, si trovano sculture di Toni Benetton, simboleggianti le vari di-
scipline scolastiche. Si dilettava a scrivere e, in un poemetto dedicato ai
compagni con cui si incontrava in sezione, alcune strofe, qui di seguito
riportate, sono riferite a Lina.

IX    Ciò che ora dico tutti potete attestare
          Che sopra tutte una era la prima

Lina Sartori questa si suol chiamare,

ed ognuno le porta rispetto e stima

di quel che lei per l’organizzazione sa fare, doti, capacità bontà non conosciute prima. Tutti noi le facciamo affidamento

Che nel campo femminile faccia il tesseramento.

X    Anche di lei ora però smetto di parlare

Altrimenti tutti direte che ne sono innamorato
Giacché sono in argomento, vi posso confessare
Ch’è l’unica donna che abbia stimato.
Se la stimo anche ora non vi dovete meravigliare
Perché sapete che io le sono affratellato.
Non posso dir così di una (liberina)
Che di tutti noi cerca la rovina!

Dante è stato molto attivo anche nel sindacato dei braccianti e, ancora nel suo poemetto, trova posto questa ulteriore strofa:

XI    Ora vi parlo di un lavoratore in gamba;

nessuno può dir che sia a qualcun minore.

Primo Visentin il suo nome, sarà stampa e propaganda, certi siamo delle sue capacità di diffusore,
adopera, con maestria, falce martello e vanga.
Guadagnò sotto le armi i galloni di Sergente Maggiore. Vanto è di Punta Pali, nei suoi lavori immerso,
spina negli occhi del ladrone Converso.

Dopo la guerra, il paese subisce un’altra grande tragedia: l’alluvione del
Po, nel novembre del ’51. Cavarzere viene sommersa.
Il muraglione dell’Adige salva dalla inondazione la parte sinistra del
paese. Il linificio, situato proprio in questa parte, ospita centinaia di al-
luvionati. L’acqua arriva al secondo piano delle case e in certi punti rag-
giunge i quattro metri.

E anche in questa triste occasione Lina si mette a disposizione della popolazione e, tramite il neonato Comitato di solidarietà, porta al sicuro centinaia di ragazzi. Ragazzi in difficoltà, provenienti dalle zone più povere del paese, che non avevano mai visto, prima di essere ospitati presso le famiglie che avevano dato la loro disponibilità, dei biscotti dolci, non avevano mai assaggiato la marmellata. Fino a quel momento avevano conosciuto, come cibo, solo latte, polenta ed erbe.

Dopo il matrimonio lei e Dante vanno ad abitare a Venezia, città che ha sempre amato e dalla quale non si sarebbe mai allontanata.
Ma un anno dopo, con l’elezione a sindaco del marito, deve far ritorno, seppure a malincuore, a Cavarzere.

Alla nascita dei figli, (l’ultimo è nato nel 1958), smette di fare attività
per accudirli, ma quella vita ben presto comincia ad andarle stretta. L’ino-
perosità, lontana dal sindacato e dalla politica, non fa per lei.
Allora prende carta e penna e si rivolge alla Jotti e alla Rodano: vuole ri-
tornare ad essere presente nelle lotte per l’emancipazione femminile, non
può risultare assente nelle loro rivendicazioni e desidera partecipare alle
attività dell’ UDI.

Dopo qualche settimana arriva la tanto agognata risposta.

Finalmente, può tirare un sospiro di sollievo e riprendere ad impegnarsi.

Il primo incarico quale responsabile dell’UDI lo svolge a Chioggia.

Di pomeriggio, lungo le calli, sulle rive dei canali, con il megafono, con la collaborazione della moglie del sindaco di Chioggia, Ravagnan, instancabile nell’incontrare le donne, a sollecitarle, a scuoterle.
Poi fu la volta dell’impegno a Venezia.

Fece fatica a costruire un circolo in questa città, perché le donne veneziane che si erano avvicinate all’UDI, molte delle quali ricche borghesi, le sembrava non partecipassero col cuore alle richieste del movimento, ma lo facessero con un certo distacco.

Fu aiutata molto però, in quel periodo veneziano, da una donna che an-
cora adesso ricorda con tanto affetto: Libera Brunello.
Non appena entrata a lavorare per costruire i circoli UDI nella provincia
di Venezia, Libera ha provveduto ad ingaggiarla e a pagarle i contributi
per la pensione.

A proposito di pensione, nonostante le lotte e l’impegno profuso per con-
seguire un risultato positivo, ancora oggi non esiste una legge che con-
senta alle casalinghe di poterne usufruire (ovviamente non a titolo
gratuito).

Un cruccio però, per quanto riguarda l’UDI, Lina ce l’ha: con sommo
dispiacere non è riuscita ad istituire una sede dell’Unione donne italiane
a Cavarzere, anche se le donne cavarzerane si dimostravano sempre di-
sponibili all’acquisto di “Noi donne”, il mitico giornale e, potendo, non
le negavano un contributo finanziario, nel limite delle loro possibilità,
per sostenere le spese per le manifestazioni e per lo svolgimento delle
varie attività.

È stata costantemente e tenacemente presente in tutte le iniziative utili alla crescita e alla emancipazione femminile.

E poi venne la passione politica.

Molti gli incarichi ricoperti nel corso dei vari anni: consigliera comunale a Chioggia, membro della Commissione provinciale femminile del PCI di Venezia, consigliere di amministrazione dell’ospedale civile di Cavarzere, sempre aiutata da Dante.

Memorabili i suoi comizi nelle frazioni, nelle piazze, nelle osterie adattate a luogo di incontro politico. Comizi per campagne elettorali, per festeggiare un Primo Maggio o un 25 Aprile.

Augusto sempre al suo fianco, compagno instancabile e grande sosteni-
tore.

Lui, Augusto, leggeva “l’Unità” integralmente, non saltava un articolo e
non dubitava mai di quello che veniva scritto: ci credeva ciecamente.
Si lavorava tutto il pomeriggio per annunciare il comizio e fare della pub-
blicità girando per le strade con il megafono o con l’impianto voce posi-
zionato sulla cappotta della macchina messa a disposizione da qualche
compagno.

Alla sera, in mancanza di spazi pubblici, ci si ritrovava anche in case pri-
vate.

Memorabili restano i suoi interventi e contributi occasionali, anche fino
a pochissimo tempo fa, seppure in età ormai avanzata, al supermercato,
nella sala d’attesa del dottore, in farmacia, tra le bancarelle del mercato
e in qualsiasi altro posto dove ci fossero delle persone che potessero pre-
starle ascolto.

Non ha mai avuto paura di esprimere le proprie idee. Anzi, le ha sempre
gridate. Mente fertile, aperta e creativa, non si perdeva mai d’animo. Ri-
corda che, durante una campagna elettorale (si trovava a Venezia in quel
periodo), ebbe l’idea di inscenare dei teatrini sulla gondola – traghetto in
Canal Grande che trasporta le persone dal Municipio alla riva opposta.
D’accordo con un paio di compagne che le facevano da spalla, tutto il
giorno sulla gondola e ad ogni nuovo imbarco si scambiano frasi del tipo:
“Hai sentito cosa ha fatto la Democrazia Cristiana? Ha appena siste-
mato…”

“Cossa disela” – rispondeva l’altra – “eh no, non bisogna più votare per la Democrazia Cristiana! Non si preoccupano mica della povera gente… pensano a sistemare chi sanno loro…”

“Bisogna stare attenti, capire, noi in famiglia voteremo senz’altro per il Partito Comunista…”

E di rimando le altre continuavano a rispondere a tono. Così, avanti e indietro, per ore e ore, per giorni.

Intanto comincia a farsi strada nell’opinione pubblica l’esigenza di avere
dei servizi che possano favorire l’inserimento delle donne nel mondo del
lavoro.

Si inizia a parlare di asili nido, di scuola materna.

Ritenendo tali servizi indispensabili per lo sviluppo e la crescita delle donne, delle famiglie e pertanto della società – intesa nel senso più ampio della parola- senza indugio abbraccia l’idea di intraprendere la lotta per la conquista di questi diritti, mobilitando centinaia di donne.

È stata tra coloro che, con le carrozzine, in pieno inverno, hanno sostato davanti a Montecitorio, dimostrando tutta la loro forza, fino alla definitiva approvazione della legge istitutiva della scuola materna.
Protagonista instancabile in anni e anni di Feste de l’Unità. A cucinare, a sgusciare decine e decine di uova, a lavare piatti e padelle, a pelare patate, a impastare gnocchi, a impiattare chili di pasta.

Qualche volta la vedevi seduta su una sedia, la testa un po’ reclinata,
vinta dal sonno e dalla stanchezza. Durava un attimo, poi si rialzava e
riprendeva a lavare piatti, a cucinare, a preparare sughi e ragù.
Dopo la morte del marito, nel 1995, abbandona tutti gli impegni e gli in-
carichi. Ma anche questa volta non ce la fa a restare con le mani in mano.
Contribuisce, infatti, a dar vita alla costituzione dell’Auser di Cavarzere,
raccogliendo l’invito da parte della segreteria provinciale che intendeva
appunto far sorgere una sede anche in questo paese.

Lina ha una lunga storia di lotte sindacali, di manganellate della “Celere”, di processi e denunce per scioperi e manifestazioni in difesa dei braccianti agricoli prima, degli operai dello zuccherificio poi, ma non aveva esperienza di associazionismo, di volontariato e non ne avevano neppure quelli che, insieme a lei, a capofitto, si sono messi al lavoro dando vita ad una buona associazione, spinta anche dai compagni dello SPI, di cui fa tutt’ora parte e con cui collabora.

Queste memorie sono state raccolte dalla sua viva voce durante molti pomeriggi trascorsi insieme. Qualche volta la memoria, durante il racconto, la tradiva, appena appena, ripetendo quanto appena raccontato. Se glielo facevo notare, mi guardava sospirando e sorridendomi, facendomi capire che anch’io, alla sua età…

Da lei ho imparato tanto e le sono immensamente grata.

Quando la vado a trovare, mi accoglie a braccia aperte, brandendo peri-
colosamente il bastone che è costretta ad usare dopo la frattura di un fe-
more avvenuta un paio di anni fa. Mi abbraccia e mi urla: “caaaara!
Quanto ben che te vojo!” E mi viene spontaneo ripensare alla frase della
de Beauvoir.

Non so se zia Lina sia nata donna o lo sia diventata, so però con certezza che ha speso la sua vita ad aiutare tante donne a maturare, a prendere coscienza dell’essere donna e di saper valutare e far rispettare questa condizione, questa appartenenza all’umanità.

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